La speranza era quella che, delusi dal Windtalkers di John Woo, Randall Wallace riuscisse a reinventare un film di guerra pur dirigendo l'ennesima pellicola sul Vietnam. Certo ci sono i soliti personaggi un po' stereotipati, il valoroso colonnello tutto caserma, chiesa e famiglia, il sergente maggiore inossidabile veterano con la faccia alla Lee Marvin, il giovane ufficiale di prima nomina e neosposino ed il coraggioso che muore sul campo di battaglia dicendo di amare il proprio paese (anche se dovrebbe essere plausibile che i militari di carriera abbiano determinate convinzioni). Luoghi comuni a parte, la storia della battaglia nella valle della morte raccontata in We Were Soldiers colpisce nel segno e fa centro per tutte le due ore e un quarto di durata perchè al regista spetta il merito di avere impostato una costruzione narrativa diversa dal solito.
Nessuna lungaggine sulla fase di addestramento negli Stati Uniti e sulla vita privata dei soldati ma solo dei sapienti tocchi di regia come il dettaglio degli anfibi di Mel Gibson vicino a piedini della sua bambina intenta a pregare, la riunione delle mogli per organizzare al meglio gli affari domestici, l'anticonvenzionale incontro nella cappella tra lo stesso Gibson e Chris Klein, l'altruismo di quest'ultimo ben esemplificato dal suo gesto nei confronti del commilitone di colore.
Poi, dopo la partenza nella notte, è guerra, guerra vera, crudele e spietata in cui, come spiega il Moore alla figlia con agghiacciante semplicità, alcuni uomini vogliono togliere la vita ad altri. Sarebbe stato troppo semplice e tedioso arrivare alla conclusione del film montando interminabili sequenze di combattimento ma Wallace è riuscito in maniera efficace ad alternare i momenti di azione violenta, quelli in cui l'orrore è invece suggerito da una sola inquadratura, come il lavaggio del sangue che ha sporcato la pavimentazione del vano passeggeri di un elicottero, i silenzi notturni e la scena della macabra consegna dei telegrammi da parte di un anonimo tassista. Dopo lo spettacolare volo in fila indiana dei velivoli della 1a Divisione di Cavalleria elitrasportata arricchita da pochi ed efficaci effetti digitali, la battaglia viene vista dall'altra parte, quella dell'esercito nord-vietnamita e ci mostra un nemico certamente determinato, mortale ma lontano da quelle caricaturali belve assetate di sangue tratteggiate in altre pellicole. La controparte vietnamita di Mel Gibson è un uomo segnato dalle migliaia di morti a cui ha assistito ed alle quali, suo malgrado, dovrà ancora assistere prima di vedere la conclusione della guerra ed il giovane soldato dell'N.V.A. che prima di tentare una sortita da solo contro gli americani guarda la foto di una ragazza riesce persino a commuovere coloro i quali guardano il film con un occhio imparziale.
Certo il mitragliamento degli elicotteri e l'attacco aereo mostrati da Wallace non hanno la forza evocativa di quelli di Coppola in Apocalypse Now, pur essendo dal punto di vista tecnico bellissimi, ma la fotografia di Dean Semler volutamente sgranata per sembrare un combat-movie girato dai cineoperatori militari ed il montaggio finale con le fotografie in bianco e nero scattate dall'inviato di guerra Galloway (che poi firmerà il libro assieme a Ten. Col. Moore) conferiscono ancora di più all'intera vicenda quel senso di cruda verità che We Were Soldiers ha espresso dall'inizio, con il massacro delle truppe francesi, alla conclusione.
E Randall Wallace non risparmia neppure una sferzata finale diretta a quei cronisti sempre in cerca del facile sensazionalismo capaci solo di rivolgere domande desolatamente banali e prive di significato.